Assimilazione dei rifiuti: per le imprese vent’anni di attese (e salassi)

di Luigi Palumbo 25/01/2017

Mancano pochi giorni al ventennale del “decreto Ronchi”, che il 5 febbraio del 1997 dotò l’Italia della sua prima disciplina di legge organica in materia ambientale. Un provvedimento rivoluzionario, se non fosse per il fatto che tra le prescrizioni in esso contenute, ce ne sono tante che ancora oggi restano lettera morta. Soprattutto, inutile dirlo, tra quelle di competenza dello Stato. In materia di rifiuti, ad esempio, all’articolo 18 comma 1 lettera e, tra quelle competenze veniva indicata «la determinazione dei criteri qualitativi e quantitativi per l’assimilazione, ai fini della raccolta e dello smaltimento, dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani». Il Ministero dell’Ambiente avrebbe dovuto cioè adottare un decreto che indicasse i criteri in base ai quali i comuni, che dovrebbero gestire i soli rifiuti urbani, possono estendere la propria privativa anche a determinate categorie di rifiuti speciali prodotti da imprese e attività commerciali. Dietro pagamento, da parte di queste ultime, della tassa o tariffa rifiuti comunale.

Vent’anni dopo, di quei criteri non c’è ancora traccia, la tassa rifiuti ha cambiato nome da Tarsu a Tares a Tari, ma lo scenario è rimasto lo stesso: una situazione frammentata, dove i confini dell’assimilabilità variano a seconda dei regolamenti adottati in maniera autonoma da ogni comune, sulla base di due provvedimenti già esistenti, uno del 1999 (sui criteri quantitativi), l’altro addirittura del 1984 (per i criteri qualitativi).

A variare, oltre ai criteri di assimilabilità, sono anche gli importi dei tributi imposti alle imprese. Spesso in maniera ingiustificata. «La Tari è l’emblema di un Paese a macchia di leopardo, che procede tra norme nazionali disattese da parte dei comuni e richieste illegittime a molte imprese, anche per migliaia di euro, da parte degli stessi Comuni» scrive oggi la Cna in una nota stampa diramata al termine di un incontro tenutosi al Ministero dell’Ambiente proprio per cominciare, dopo vent’anni, a mettere nero su bianco i contenuti del decreto. «I Comuni hanno fatto un utilizzo improprio del principio di assimilazione, riportando quanto più possibile dentro la gestione pubblica i rifiuti speciali prodotti dalle imprese e, conseguentemente, applicando a questi la Tari«. Il perché è facilmente intuibile: più rifiuti speciali rientrano nella sfera della privativa comunale, più imprese sono tenute a versare il tributo, più il comune incassa. Non male, in tempi di vacche magre per le amministrazioni locali.

Se a questo si aggiunge il fatto che buona parte dei rifiuti assimilabili è rappresentata dagli imballaggi, e che quindi contribuisce alla determinazione delle percentuali di raccolta differenziata, si fa presto a capire chi dal ventennale ritardo del Ministero ci ha guadagnato e chi, invece, ci rimette. E tanto anche. Un miliardo di euro per il solo 2015 è la stima calcolata dalla Cna delle tasse versate dalle imprese su rifiuti già avviati allo smaltimento. Ma com’è possibile che le imprese paghino due volte per smaltire i propri rifiuti? La risposta è all’articolo 1 comma 649 della legge di stabilità 2014 (quella che ha istituito la Tari), dove si specifica che «il comune individua le aree di produzione di rifiuti speciali non assimilabili», ovvero che è il comune a determinare autonomamente la superficie non tassabile dell’azienda. Cosa che, secondo quanto dichiarato dai rappresentanti di Federdistribuzione in occasione di un’audizione in Senato a dicembre del 2015, è alla base di un «elevatissimo tasso di contenzioso tra Comuni e imprese» sull’estensione delle aree ritenute tassabili perché suscettibili di produrre rifiuti assimilabili.

Va da sé, infatti, che più “larghi” sono i criteri qualitativi e quantitativi di assimilazione, maggiori saranno le probabilità che una superficie, sebbene deputata alla produzione di rifiuti speciali, sia ritenuta produttiva anche di rifiuti assimilabili, e quindi tassabile. Cosa che, stando ad una risoluzione del 2014 del Ministero dell’Economia produrrebbe «una ingiustificata duplicazione dei costi, perché i soggetti produttori di rifiuti speciali, oltre a far fronte al prelievo comunale, dovrebbero sostenere il costo per lo smaltimento in proprio degli stessi rifiuti». Contenzioso che si ripropone anche nel caso in cui l’impresa decida, sempre a sue spese, di avviare a recupero i propri rifiuti assimilabili. Sempre secondo la legge di stabilità 2014 infatti, «il comune disciplina con proprio regolamento riduzioni della quota variabile del tributo proporzionali alle quantità di rifiuti speciali assimilati che il produttore dimostra di aver avviato al riciclo». In realtà ottenere lo sconto sulla Tari non sempre è cosa semplice e anche lì si finisce spesso nelle aule della giustizia amministrativa. Il tutto, per di più, «pur in assenza, spesso, del servizio pubblico», denuncia Federdistribuzione.

Insomma, la legge del 2014 e la parallela mancanza di un decreto che stabilisca a livello nazionale i limiti quantitativi e qualitativi dell’assimilazione, conferiscono agli enti locali una discrezionalità pressoché totale sul come, perché e quanto tassare le aziende. E non solo, perché il ricorso all’assimilazione, oltre che sul fronte fiscale produce effetti anche su quello della concorrenza nel mercato della gestione dei rifiuti. Tant’è che la vicenda è da tempo ormai sotto la lente d’ingrandimento dell’Antitrust, che sul tema è intervenuta più volte, non ultimo con un dossier pubblicato nel 2016 nel quale rileva come «l’eccessiva ampiezza e indeterminatezza dei criteri di assimilazione» abbia «l’effetto di ridurre lo spazio di operatività di soggetti privati specializzati che si occupano della raccolta e dell’avvio a riciclo dei rifiuti prodotti da attività commerciali e produttive medio-piccole».

Nel dossier si sottolineava, tra l’altro, l’estrema discrezionalità con la quale i comuni hanno interpretato le due disposizioni del 1984 e del 1999 nella definizione dei propri regolamenti su qualità e quantità dell’assimilazione. Su un campione di 43 comuni appartenenti a 10 Regioni, «mentre per ciò che riguarda i criteri qualitativi, si osserva che le amministrazioni locali generalmente si attengono alle prescrizioni delle norme nazionali (anche se, ad esempio, il Comune di Cuneo, in Piemonte, invece, fa riferimento ai Codici CER dei prodotti, e il Comune di Milano fornisce un elenco solo parzialmente congruente con le disposizioni del decreto)», per quelli quantitativi «emerge una situazione estremamente frammentaria e disomogenea» dove «solo il 14% dei Comuni analizzati si attiene ai criteri quantitativi per l’assimilazione previsti dal D.P.R. n. 158/1999, mentre il 12% (tra questi si annovera il Comune di Milano) non prevede alcun limite».

 

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