Una comunicazione “chiara e trasparente” nei confronti dei cittadini, un Programma nazionale da rivedere per correggerne le lacune, accordi internazionali “per gestire e stoccare i rifiuti ad alta attività, quelli più pericolosi”. Queste le proposte avanzate da Legambiente per chiudere in sicurezza il dossier nucleare in Italia, in occasione del decennale dell’incidente di Fukushima, quando sono ormai passati 34 anni dal referendum che pose fine alla stagione dell’atomo nostrana e proprio mentre divampa il dibattito sulla costruzione del futuro Deposito Nazionale delle scorie radioattive. “Fino al 5 gennaio 2021 – giorno in cui è stata pubblicata dalla Sogin la CNAPI (Carta Nazionale delle Aree Potenzialmente Idonee) che ha individuato 67 aree ‘potenzialmente’ idonee ad ospitare un unico deposito nazionale per i rifiuti a bassa e media attività – l’attenzione sulla necessità di trovare una soluzione ad un problema che è sì eredità del passato nucleare del nostro Paese, ma anche frutto delle attività che ancora oggi e in futuro genereranno questa tipologia di rifiuti, non c’era. E mentre è scattato subito l’allarme nei territori per evitare che il futuro Deposito Nazionale capiti proprio lì da loro, in pochi si sono domandati come sono stati gestiti fino ad oggi tali rifiuti e se gli attuali siti deputati ‘temporaneamente’ ad ospitarli siano minimamente idonei per farlo“.
La risposta, scrive l’associazione del cigno verde nel suo ultimo dossier sui nostri rifiuti radioattivi, è “no”. “In Italia, ad oggi, secondo gli ultimi dati disponibili (riferiti a dicembre 2019), ci sono 31mila metri cubi di rifiuti radioattivi collocati in 24 impianti distribuiti su 16 siti in 8 Regioni. Impianti e siti di stoccaggio provvisori che sono stati adattati, per necessità, ma che sono assolutamente inidonei a mantenere in sicurezza materiali radioattivi“. Come l’ex centrale nucleare di Borgo Sabotino, a Latina, posta a meno di un chilometro dall’attuale linea di costa, o come le ex centrali di Garigliano e di Caorso, rispettivamente in provincia di Caserta e di Piacenza, entrambe poste in aree ad elevato rischio idrogeologico in quanto costruite a ridosso di due importanti fiumi come il Garigliano ed il Po. “Siti e gestioni (in alcuni casi) di ordinaria follia che favoriscono la proliferazione di attività criminali di smaltimento illecito di rifiuti” spiega Legambiente “l’ultima inchiesta, in ordine di tempo, è quella che ha visto impegnata la Direzione distrettuale antimafia di Milano che è riuscita a smantellare un’associazione a delinquere, con forti connessioni con la ‘ndrangheta, attiva nel traffico illecito di rifiuti, tra cui anche 16 tonnellate di rame trinciato contaminato radioattivamente“.
«In Italia – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – non c’è solo il problema dei depositi di rifiuti radioattivi realizzati in luoghi inidonei o addirittura pericolosi, ma anche il rischio dei loro traffici illegali. Un problema che la nostra associazione denuncia ormai da anni, da quando nel 1995 pubblicammo il nostro primo dossier sull’eredità nucleare portando in primo piano le vicende giudiziarie connesse all’affondamento di navi contenenti rifiuti radioattivi nel Mediterraneo al largo delle coste italiane e in acque internazionali. Da allora sono seguiti tanti altri dossier di denuncia uniti alla nostra battaglia storica per l’introduzione dei delitti ambientali nel codice penale che si è conclusa con l’approvazione della legge n.68/2015 che ha introdotto come nuovi ecoreati anche il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo».
Ecco perché, scrive Legambiente, occorre cominciare “da un’operazione di comunicazione e informazione chiara e trasparente nei confronti dei cittadini da parte delle istituzioni incaricate e, più in generale, da tutti i soggetti pubblici coinvolti. Vale tanto per quanto concerne la scelta del futuro deposito unico nazionale che per quanto riguarda lo smantellamento degli attuali siti utilizzati inopportunamente come depositi temporanei”. Sul piano normativo, per Legambiente è prioritaria la riscrittura del Programma nazionale di gestione dei rifiuti radioattivi, consegnato in ritardo all’Ue e per questo oggetto di una procedura d’infrazione, mentre per garantire la gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi ad alta attività, scrive l’associazione, occorre lavorare a livello comunitario per sancire accordi internazionali, visto che in Italia “non abbiamo quantità tali da giustificare un deposito geologico per questa tipologia di prodotti. Lo prevede la Direttiva europea Euratom, che indica questa strada per gli Stati con queste esigue quantità di rifiuti. Lo dicono le linee guida dell’Ispra, quelle con cui si è fatta la selezione delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il deposito unico nazionale, che si riferiscono esplicitamente ai criteri di sicurezza da adottare per la gestione di rifiuti a media e bassa attività”.
Ma occorre anche ricordare ai cittadini, chiarisce Legambiente, che sebbene l’Italia abbia detto “no” ormai più di trent’anni fa alla produzione di elettricità dall’energia nucleare, di rifiuti radioattivi se ne continuano a produrre ogni giorno. Rifiuti che vanno gestiti nella massima sicurezza. «Nella nostra Penisola – spiega Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente – al di là dei 24 siti temporanei che gestiscono attualmente i rifiuti radioattivi, esistono anche 95 strutture autorizzate all’impiego di radioisotopi e macchine radiogene ben distribuite nelle varie regioni italiane a cui si aggiungono tutte le strutture ospedaliere o di laboratorio che fanno uso di tali macchinari. A livello comunitario occorre da subito trovare accordi internazionali per gestire e stoccare i nostri piccoli quantitativi di rifiuti ad alta attività, quelli più pericolosi. A livello nazionale invece il tema della gestione dei rifiuti nucleari a media e bassa attività deve essere accompagnato, da parte delle istituzioni, da una comunicazione e informazione chiara e trasparente nei confronti dei cittadini. Servono tempistiche certe, scelte, progetti e programmi per il Deposito nazionale che non siano calati dall’alto ma inseriti in processi partecipati e di dibattito pubblico».