Secondo la PRE (Plastic Recyclers Europe, associazione che rappresenta i riciclatori di plastica del Vecchio Continente) il mercato della plastica riciclata in Europa sta “tenendo botta” dopo gli allarmi successivi al crollo del greggio nei primi mesi del 2016 sulla falsariga di quanto accaduto all’inizio dello scorso anno. Crollo che, in effetti, ha già mietuto “vittime” tra i riciclatori negli USA. Sul mercato a stelle e strisce, infatti, già da anni il nuovo polietilene tereftalato (meglio noto come New PET) ha recuperato sui prezzi delle plastiche da riciclo dopo la depressione del 2009 e fatta eccezione per una breve congiuntura tra 2012 e 2013.
Da inizio 2015, però, il problema è tornato a presentarsi causando all’industria della gestione rifiuti statunitense perdite milionarie. Stando alla testimonianza del presidente della più grande impresa americana di trasporto rifiuti, la “Waste Management”, solo nel secondo trimestre 2015 il calo degli introiti dal mercato del riciclo ha causato una perdita nell’ordine dei 59 milioni di dollari. Un andamento che con i mesi non è migliorato: ad inizio 2016 il prezzo di vendita della plastica da riciclo è arrivato a 30 dollari la tonnellata, a fronte dei 2mila cui si vendeva solo un paio di mesi prima, mentre un barile di greggio si scambiava ad un prezzo sceso in un paio d’anni da 99 a 36 dollari (anche se dai picchi negativi di febbraio il barile è risalito fino a toccare quota 40$). La produzione di rifiuti negli USA ha inoltre una portata tale da impedire anche la gestione speculativa dello stoccaggio per le imprese in attesa di migliori congiunture di mercato, a meno di non disporre di aree dedicate particolarmente estese: in linea di massima non resta che affidarsi al mercato. Anche se in questo caso significa dover mandare parecchia plastica in discarica o negli inceneritori visto che la domanda semplicemente non c’è.
Nel frattempo, però, il barile sta già affossando investimenti in tutto il mondo: è il caso della coreana LG CHEM che ha visto impazzire la bilancia delle previsioni costi-benefici di un impianto di trattamento della plastica da 4,2 miliardi di dollari da costruire in Kazakistan, finendo per decidere semplicemente di abbandonare l’opera. Non è la prima volta che le fluttuazioni finanziarie ci costringono a rimettere in discussione la sostenibilità del regime capitalista, ma la particolarità di questa congiuntura negativa sta nell’assolutezza delle sue “sentenze”: la diffusa fragilità del mercato, con un’economia in deflazione, impedisce ai settori colpiti di reagire.
Tornando all’Europa lo scenario sembra leggermente migliore almeno limitatamente ai dati disponibili, vale a dire quelli del 2015. Ecoprog, società di consulenza politica, economica e tecnologica con esperienza nei settori di energia e ambiente, in uno studio datato lo scorso settembre ha sottolineato come a fronte del prezzo del petrolio rimasto basso, già dal mese di marzo quello delle plastiche vergini abbia conosciuto un incremento che poi, a maggio, ha portato i prezzi su livelli superiori rispetto a quelli del 2014. Il fenomeno è dovuto alla quantità ridotta di plastica vergine circolante sul mercato europeo, diminuita per via della domanda dell’export e del fallimento di molti impianti. Si è così arrivati al punto che l’offerta di plastica vergine è diventata talmente bassa da non riuscire neppure ad onorare alcuni contratti in essere, il che si traduce in prezzi più alti e nella gioia di quei produttori-speculatori che hanno preferito stoccare il materiale piuttosto che immetterlo sul mercato in attesa di congiunture più favorevoli.
Per i riciclatori poca plastica vergine sul mercato significa certamente più affari, ma solo fino ad un certo punto: in Europa sul prezzo delle plastiche da riciclo ha inciso – nello stesso 2015 – un generalizzato aumento dei prezzi dei rifiuti plastici. I dati Eurostat disponibili si fermano ad agosto 2015, ma già nei primi otto mesi dello scorso anno rispetto alla media 2014 pari a 356€/ton si è passati ad una media di circa 359,5€/ton. Le ragioni sono dovute alle disparità nella gestione dei rifiuti che intercorre inevitabilmente tra i vari Paesi membri dell’UE, e quindi ai rispettivi differenti standard qualitativi. Ma è anche una questione di organizzazione e tecnologia, della differenziata a monte e della selezione a valle, giacché le piattaforme di selezione più complesse (e cioè quelli che gestiscono il multimateriale pesante) contribuiscono ad innalzare il prezzo della materia prima seconda.
In attesa di leggere i dati positivi sul mercato del riciclo europeo annunciati dalla PRE (che avrebbe dovuto svolgere questo interessante seminario a Bruxelles proprio nei giorni del tragico duplice attentato del 22 marzo e quindi rimandato a data da destinarsi) resta il fatto che la filiera dell’Unione manca ancora di una configurazione matura: basti pensare che esportiamo circa la metà della plastica raccolta, di cui l’87% finisce in Cina (dati ISWA 2014). Una filiera praticamente nelle mani di un unico attore che espone il comparto europeo a rischi che vanno al di là delle fluttuazioni del barile.