È un semplice atto amministrativo, ma potrebbe segnare la svolta nel lungo e travagliato percorso dell’Italia verso un futuro all’insegna dell’economia circolare. Parliamo di una delibera, la 170 del 7 febbraio scorso, con la quale la giunta regionale del Veneto ha approvato i primi indirizzi operativi per la definizione “caso per caso” di criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto. Si tratta dei cosiddetti criteri “end of waste”, che servono a stabilire se un processo di trattamento è in grado o meno di riciclare i rifiuti, ovvero di trasformarli in “materia prima secondaria”, nuova risorsa riutilizzabile nei cicli produttivi. Sono, in sostanza, la veste giuridica del riciclo. Nella delibera, scrive la regione, sono contenute «indicazioni tecniche per l’espletamento dell’iter amministrativo al fine di conseguire un comportamento omogeneo sul territorio regionale» nelle procedure di rilascio delle autorizzazioni per gli impianti di riciclo. Non tutti i progetti infatti vengono valutati e autorizzati dalla Regione ma, a seconda dei casi, possono doverlo fare anche le province o le Città metropolitane.
Le indicazioni contenute nel documento vanno dai parametri per la valutazione della qualità dei rifiuti in ingresso nell’impianto ai requisiti della documentazione da presentare all’ente competente al rilascio dell’autorizzazione. Tra questi, si precisa la necessità di chiarire se la sostanza prodotta dal processo di riciclo possa essere utilizzata per scopi specifici, se rispetti gli standard di qualità della materia che il prodotto riciclato andrebbe a sostituire e se, per quel prodotto, esista o meno un vero mercato o una domanda. Troppo complicato? Il tema in effetti si presenta come uno di quelli per soli addetti ai lavori. Proseguendo nella lettura, però, scoprirete che la storia di quella delibera è in realtà la storia di un intero Paese. Il nostro, dove la burocrazia è il pane quotidiano e le dispute a colpi di carte bollate non di rado rischiano di frenare progetti innovativi e iniziative ambiziose. Soprattutto se di mezzo ci sono i rifiuti. Per capire bene l’importanza della delibera 170, però, dobbiamo necessariamente fare un passo indietro di un anno e mezzo.
È il 16 agosto del 2016 quando Regione Veneto nega l’autorizzazione ordinaria al riciclo all’impianto sperimentale di recupero materia dai prodotti assorbenti costruito dal consorzio Contarina in partnership con Fater a Lovadina di Spresiano, in provincia di Treviso. Non è la prima volta che succede, in Italia, e dopo vedremo perché. Ma nel caso in questione il “no” della Regione fa particolarmente rumore. L’impianto, infatti, è unico al mondo nel suo genere. Inaugurato nel 2015, era stato salutato con grande entusiasmo sia dall’opinione pubblica che dagli addetti ai lavori. I prodotti assorbenti per l’igiene personale, tra i simboli dell’usa e getta, sono infatti da sempre considerati impossibili da riciclare. Ogni anno in Italia se ne producono circa 900mila tonnellate, smaltite per più della metà in discarica e per il resto in termovalorizzatore.
Puntando su tecnologie innovative e ricerca, Contarina e Fater – con il supporto dell’Ue – avevano però vinto la sfida, mettendo a punto un processo industriale capace di ridurre di un terzo circa il peso dei rifiuti da smaltire, recuperando da una tonnellata di prodotti assorbenti usati ben 150kg di cellulosa, 75kg di plastica e 75kg di polimero super assorbente. Nonostante il clamore mediatico sollevato dall’iniziativa, però, l’autorizzazione ordinaria non arriva e l’impianto può continuare a funzionare solo in via sperimentale.
Secondo la Regione, infatti, dal momento che non esiste ancora uno specifico criterio end of waste sui prodotti assorbenti, il processo di riciclo di Contarina non può essere valutato né tanto meno autorizzato. In effetti pannolini e assorbenti intimi non sono ancora coperti da criteri “eow” ad hoc, a differenza di rottami, vetro, rame e (in parte) combustibili solidi da rifiuto. E tutte le altre tipologie di rifiuto che ogni giorno vengono riciclate in Italia? Come fanno le imprese ad ottenere le autorizzazioni al riciclo in assenza di criteri “eow”, per esempio, sui rifiuti in plastica? Grazie ad una norma di 20 anni fa: il decreto del Ministero dell’Ambiente del 5 febbraio 1998, che stabilisce i parametri guida di circa 200 procedure di recupero per altrettante tipologie di rifiuti. Si tratta in realtà di procedure “agevolate”, nate per permettere alle imprese, in particolare condizioni, di riutilizzare i propri scarti di produzione.
Il problema però è che da venti anni quello stesso elenco è utilizzato da province e regioni come testo di riferimento anche per valutare le richieste di autorizzazione per gli impianti di riciclo. Così succede che se un progetto prevede la trasformazione di una tipologia di rifiuto non contemplata dall’elenco del ’98, proprio come i pannolini usati di Contarina, in assenza di un apposito criterio “eow” la procedura autorizzativa si arena. E se si considera il fatto che negli ultimi venti anni l’elenco non è mai stato aggiornato tenendo conto dell’evolversi delle tecnologie per il riciclo e dei nuovi studi sulle proprietà dei materiali, si fa presto a capire come queste impasse finiscano nella maggior parte dei casi per penalizzare i progetti di riciclo più ambiziosi e innovativi.
Ma torniamo al caso Contarina. L’impianto trevigiano resta senza autorizzazione, e così tanti saluti all’economia circolare. Va da sé infatti che se un impianto di gestione dei rifiuti non è autorizzato al riciclo, ciò che viene fuori dal processo non è materia prima seconda, da utilizzare come nuova risorsa, ma resta un rifiuto. Da smaltire. Ma allora, chi è che stabilisce i criteri “end of waste”? La legge prevede che i parametri possano essere messi a punto dall’Ue con appositi regolamenti o, in alternativa, dal Ministero dell’Ambiente con decreto. Ed è per questo che Regione Veneto, così come tante altre Regioni italiane alle prese con il nodo delle autorizzazioni al riciclo, sostiene di non avere titolarità in materia di end of waste. Vero?
Falso, come stabilito a dicembre 2016 dalla terza sezione del Tar del Veneto, nella sentenza emanata a valle di un ricorso proposto da Contarina, nella quale si cita, tra l’altro, una circolare del Ministero dell’Ambiente datata primo luglio 2016 (un mese prima cioè della delibera con la quale la giunta nega l’autorizzazione) che aveva ricordato proprio come «in via residuale, le Regioni – o gli enti da queste individuati – possono, in sede di rilascio dell’autorizzazione prevista agli articoli 208, 209 e 211, e quindi anche in regime di autorizzazione integrata ambientale (Aia), definire criteri end of waste previo riscontro della sussistenza delle condizioni indicate al comma I dell’articolo 184-ter, rispetto a rifiuti che non sono stati oggetto di regolamentazione dei succitati regolamenti comunitari o decreti ministeriali».
Insomma, dice il Tar, le Regioni smettano di giocare allo scaricabarile e stabiliscano criteri di fine rifiuto “caso per caso” in assenza di regolamenti Ue o ministeriali, indipendentemente dall’elenco contenuto nel decreto del 1998. E anche se a più di un anno da quella sentenza l’autorizzazione non è stata ancora rilasciata, e l’impianto di Contarina continua ad andare avanti in modalità sperimentale generando, dai rifiuti trattati, altri rifiuti, Regione Veneto ha finalmente lanciato un segnale d’apertura. E qui torniamo alla famigerata delibera, con la quale la giunta regionale, caso unico a livello nazionale fino a questo momento, muove un primo, coraggioso passo verso la definizione di criteri end of waste “caso per caso”. Un passo piccolo, sia ben chiaro: si tratta pur sempre di “primi indirizzi operativi”. Ma per le decine di richieste di autorizzazione al riciclo che ancora oggi annaspano nelle sabbie mobili della burocrazia da Nord a Sud del Paese, anche quel piccolo passo può fare la differenza.
Lo scorso dicembre, rispondendo ad un’interrogazione alla Camera, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti aveva rivelato come un apposito decreto sul fine vita dei pannolini usati fosse «in discussione con i tecnici dell’Ispra» e quasi pronto per essere sottoposto al vaglio di Bruxelles. E anche se né il decreto, né tanto meno l’autorizzazione hanno ancora visto la luce, l’avventura di Contarina e Fater prosegue. Risale solo a qualche giorno fa la notizia di una importante partnership siglata tra Fater e la statunitense Kiverdi, leader nel mercato delle biotecnologie, nell’ambito del progetto europeo Embrace per la realizzazione di un processo per convertire la cellulosa ricavata dal riciclo dei prodotti assorbenti in prodotti a base biologica ad alto valore aggiunto: fertilizzanti, imballaggi biodegradabili e materiali per applicazioni mediche, tra gli altri.
In particolare, tramite gassificazione la cellulosa verrà trasformata in uno speciale biopolimero, il PHB (Poli-β-idrossibutirrato), tra i più utilizzati nella produzione di imballaggi in plastica biodegradabile e compostabile. Il PHB viene in genere sintetizzato a partire dalla canna da zucchero, ma produrlo utilizzando la cellulosa recuperata dai pannolini costerà meno. E non solo in termini economici. Secondo stime dei ricercatori di Embrace, infatti, oltre a garantire un risparmio del 50% sui costi della produzione rispetto al metodo tradizionale, il processo di gassificazione potrebbe al tempo stesso tagliare di netto le emissioni di Co2, riducendole di circa 250 kg per ogni tonnellata di PHB prodotto. Insomma, per i materiali recuperati dai pannolini nell’impianto di Contarina e Fater non solo c’è un mercato, ma reimmetterli nel ciclo produttivo, a quanto pare, fa bene alle tasche e anche all’ambiente. Basterà per poter finalmente parlare di “riciclo”?