Il ‘Glasgow Climate Pact’ siglato al termine delle due settimane di negoziati è il trionfo della ‘realpolitik’ sul coraggio chiesto dal popolo ambientalista, ma riesce per il momento a tenere in vita il target di riduzione del riscaldamento globale a 1,5 gradi. Von der Leyen: “Ora attuare le promesse e puntare più in alto”
Non è stata la COP26 dell’accelerazione, quella chiesta dal panel di esperti dell’IPCC, né tanto meno la COP26 del coraggio, del cuore oltre l’ostacolo, come fino alla fine hanno continuato a invocare giovani e ambientalisti di tutto il mondo. È stata piuttosto la COP26 della ‘realpolitik’, segnata dalla consapevolezza che quella tracciata nel 2015 con la sigla dell’Accordo di Parigi resta la strada maestra da seguire per scongiurare il disastro, ma anche dal diffuso timore per l’impatto economico e sociale dei processi di decarbonizzazione e riconversione energetica. E dalle pressioni dell’industria tradizionale e delle economie ‘fossili’, che hanno prevalso sul blocco ‘net zero’ al 2050 guidato dall’Ue e, più in generale, sull’allarme per le conseguenze catastrofiche della crisi climatica in atto. Il risultato è una “vittoria fragile”, per usare le parole del presidente della COP26 Alok Sharma.
Se la COP21 aveva suggellato la comunione d’intenti sul ‘cosa’ andasse fatto per contrastare la crisi, e cioè ridurre le emissioni in modo da tenere il riscaldamento globale entro i 2° rispetto all’era pre-industriale, il ‘Climate Pact’ siglato a Glasgow riesce solo in parte a spingersi oltre definendo in maniera vincolante e condivisa il ‘come’ e il ‘quando’ restare sotto gli 1,5°. E anche se l’obiettivo resta in vita, “il suo polso è debole”, ha commentato tra le lacrime Sharma. Fallito il piano di rivitalizzarlo mettendo nero su bianco l’addio definitivo al carbone: per la prima volta il combustibile più inquinante fa la sua comparsa in un documento finale alla Conferenza delle Parti, ma l’intervento in scivolata dell’India ai tempi supplementari della COP trasforma il ‘phase out’ delle prime bozze, ovvero l’addio graduale, in un ‘phase down’, cioè una riduzione progressiva. Differenze che vanno ben oltre il piano lessicale e che, di fatto, garantiscono la sopravvivenza dell’industria dell’energia da carbone “non abbattuta”, ovvero quella senza cattura di CO2. Resta invece il ‘phase out’ dei sussidi ai combustibili fossili, anche se limitatamente a quelli “inefficienti”.
Più specifici, anche se solo a metà, gli impegni in tema di riduzione delle emissioni di CO2, fronte sul quale si auspica un’azione “rapida, profonda e sostenuta” per “limitare – si legge nel Climate Pact – il riscaldamento globale a 1,5 gradi”: ‘sì’ al taglio entro il 2030 del 45% rispetto ai livelli del 2010, ma il target della neutralità carbonica resta fissato “intorno alla metà del secolo”. Una formulazione generica sulla quale pesano le posizioni di Cina, Russia e India, con le prime due che indicano nel 2060 il termine ultimo per raggiungere il livello zero di emissioni nette, e la terza che invece lo colloca più in là di dieci anni, al 2070. Rinviato alla COP27 il primo tagliando sulle misure di decarbonizzazione messe in campo dalle Parti per il prossimo decennio. Misure che dovranno essere più che ambiziose, visto che, si legge nel patto, “le attività umane hanno già provocato l’innalzamento di 1,1 gradi della temperatura globale” e che, secondo l’Unep, l’agenzia ambientale dell’ONU, gli impegni climatici attualmente assunti dai governi del Pianeta conducono verso un catastrofico innalzamento di 2,7 gradi. “Gli 1,5 gradi rimangono a portata di mano – ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – ma il lavoro è tutt’altro che finito. Il minimo che possiamo fare ora è attuare le promesse di Glasgow il più rapidamente possibile e poi puntare più in alto.
Profonda la delusione dell’Italia su uno dei fronti più caldi delle trattative, quello del sostegno finanziario ai Paesi fragili, sul quale il governo si era speso tantissimo già in occasione del G20 di Roma annunciando in quella sede l’impegno a portare il proprio contributo a 7 miliardi nei prossimi 5 anni. Nel documento di Glasgow si “nota con profondo rammarico” il mancato raggiungimento dell’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari l’anno da investire in azioni di mitigazione e si sollecita i Paesi sviluppati a raggiungerlo entro il 2025. “Sono molto insoddisfatto sulla parte finanziaria. Non sono convinto che tutti abbiano capito l’importanza della solidarietà” – ha dichiarato il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ospite questa mattina di Radio24.
E allora, sono state due settimane di ‘bla bla bla’? Certo, ma di quello buono però. Del ‘bla bla bla’ che nei sistemi democratici è sinonimo di dialogo, confronto, negoziato, e che serve a trovare soluzioni che tengano insieme “gli interessi, le condizioni, le contraddizioni e lo stato della volontà politica nel mondo oggi”, come ricordato dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. E anche se il documento finale della COP26 non risponde in maniera esaustiva agli allarmi della scienza e alle richieste del popolo ambientalista, resta il bicchiere mezzo pieno. La traduzione dall’ideale al reale, dall’impegno alle misure concrete per onorarlo, non è esercizio semplice. Tanto più se comporta la trasformazione radicale e nel brevissimo periodo di sistemi produttivi complessi, talvolta di intere economie, per quanto minacciate dalla catastrofe climatica queste possano essere. Ma gli impegni assunti in Scozia ci dicono anche che quella distanza tra ideale e reale si è ridotta e che, sebbene in ordine sparso, le principali economie del Pianeta hanno segnato sul proprio calendario l’appuntamento con la neutralità carbonica. Anche quelle che fino a poco tempo fa si ostinavano a negare il riscaldamento globale o la sua connessione con le nostre abitudini di produzione e consumo. Il lavoro per compattare il fronte e accelerare il percorso riparte da questo piccolo, ma significativo, passo in avanti.