Secondo uno studio di Ref Francia e Germania viaggiano verso il disaccoppiamento con il PIL, mentre l’Italia resta un Paese “ad alta intensità di rifiuto”. La causa? L’eccessivo ricorso ai trattamenti intermedi, anche per tamponare la mancanza di impianti di recupero
La mancata chiusura dei cicli di gestione dei rifiuti e l’assenza di strategie di recupero delle frazioni critiche stanno mettendo a rischio lo sviluppo sostenibile in Italia, allontanando l’obiettivo del disaccoppiamento tra PIL e produzione di scarti. Obiettivo che invece sembra a portata di mano per i nostri vicini d’oltralpe. Lo spiega Ref Ricerche nel suo ultimo position paper, partendo da una doverosa premessa: quanto a capacità di recuperare materia dai rifiuti l’Italia non ha rivali in Europa. Lo dicono i numeri. Il nostro 79,3% di riciclo supera la Francia, seconda, al 55% ed eclissa la Germania con il suo 42,7%. L’antica tradizione di trasformare gli scarti nelle risorse che la natura non ha disseminato sul territorio nazionale trova conferma nel tasso di circolarità dei materiali, vale a dire nella percentuale di materia riciclata che viene sostituita alla materia vergine nei cicli produttivi, che in Europa in media è all’11,8% e che in Italia è al 19,5%. Meglio di noi solo la Francia, anche se di poco, con il suo 20%. Oggi che i temi del riciclo e dell’economia circolare sono in cima alle priorità politiche dell’Ue, la propensione italiana al recupero, che è parte del patrimonio genetico della nostra economia, sta diventando un vero e proprio vantaggio competitivo.
Fatta questa doverosa premessa veniamo al problema, e cioè che di rifiuti ne produciamo ancora troppi. E che il fatto che siamo bravi a riciclarli non ci autorizza a farlo, visto che uno dei principi cardine dello sviluppo sostenibile è il cosiddetto ‘decoupling’ ovvero il disaccoppiamento tra la quantità di rifiuti prodotti, quindi di risorse consumate, e la crescita economica. Un traguardo dal quale siamo ancora molto lontani. Se dal 2010 al 2018 infatti il PIL è cresciuto di appena lo 0,5%, la produzione di rifiuti invece è aumentata addirittura del 23,4%. Al contrario, in Francia e Germania, dove il PIL è cresciuto rispettivamente del 10,9% e del 15,4% i rifiuti sono aumentati a un ritmo meno che proporzionale. In Francia, nello specifico, per ogni mille euro di PIL nel 2018 sono stati prodotti 32 kg di rifiuti, In Italia 48, il 50% in più rispetto ai nostri cugini d’oltralpe. Ma perché, si domanda REF? Per rispondere a questa domanda occorre capire non solo ‘quanti’ ma ‘quali’ rifiuti abbiamo prodotto.
Complessivamente, tra quelli generati dalle famiglie e quelli prodotti dalle imprese, il totale dei rifiuti italiani nel 2018 ammonta a 172 milioni di tonnellate. Di queste, 82 sono generate direttamente dalle attività economiche (al netto dei rifiuti minerali prodotti da attività di demolizione o estrattive). Guardandoli più da vicino, spiega Ref, viene fuori che la metà esatta, pari a 41 milioni di tonnellate, è prodotta dalle attività di gestione dei rifiuti e delle acque reflue. Guardandoli ancora più da vicino ci si accorge che 26,7 milioni di tonnellate sono composte dagli scarti generati dal trattamento meccanico, biologico o entrambi. Fanghi da depurazione, frazioni secche generate del trattamento meccanico dei rifiuti (sia differenziati che indifferenziati) e i loro sovvalli biologici stabilizzati e mineralizzati. Insomma ‘rifiuti da rifiuti’, uno dei prodotti d’eccellenza dell’Italia del pattume.
Se si prendono in esame gli scarti della selezione dei rifiuti, ad esempio, viene fuori che quelli italiani, pari a 17,6 milioni di tonnellate nel 2018, valgono circa 9,9 kg per mille euro di PIL, quasi doppi rispetto a quelli di Germania (5,6) e più che tripli rispetto alla Francia (3,1), Peggio solo la Spagna, con i suoi 13,6 kg. Come si spiega la maggiore presenza di questo tipo di scarti? “Da un lato – spiega Ref – è un’ulteriore conferma delle peculiarità di un modello di gestione fortemente orientato al recupero di materia”. Il nostro sistema insomma ‘spreme’ i rifiuti fino all’ultima goccia negli impianti di trattamento, pur di strapparne tutto quanto è riciclabile. “Dall’altro lato – avverte però l’istituto – è anche la cartina di tornasole della mancanza di impianti per la chiusura del ciclo”. Ovvero il prodotto dell’abitudine tutta Italiana di far passare i rifiuti, soprattutto quelli indifferenziati, in un impianto di trattamento meccanico per ‘trasformarli’ sulla carta da urbani in speciali “al solo fine di sganciarli dai principi di autosufficienza regionale nello smaltimento e poter essere quindi esportati in altre regioni o all’estero. Un chiaro ed evidente esempio di eccesso di trattamento, che contribuisce a spiegare parte della maggiore produzione di rifiuto rispetto alle migliori esperienze europee”.
Una tesi, quella di Ref, che trova ampio riscontro nei dati sulla gestione dei rifiuti in Campania, tra le regioni che fanno il più ampio ricorso al ‘maquillage’ degli urbani negli impianti di trattamento intermedio e che nel solo 2019 ha esportato più di un milione di tonnellate di ‘rifiuti da rifiuti’. Una pratica diffusa ad ogni altezza dello Stivale, come dimostra una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue, che di recente ha censurato il fenomeno intervenendo in una controversia amministrativa nata in Veneto. Il motivo dell’eccesso di trattamento in Italia, e quindi del “peso inferiore degli scarti negli altri Paesi è spiegato dal maggiore ricorso al recupero energetico. Una modalità di gestione, questa, che chiude il ciclo dei rifiuti riducendo al minimo i trattamenti intermedi”. Manca spazio nei termovalorizzatori, insomma, e i rifiuti devono viaggiare. Ma per poter viaggiare meglio devono diventare speciali. “La realizzazione di una più ampia dotazione impiantistica di valorizzazione energetica consentirebbe di recuperare i flussi che non possono essere riciclati”. E di produrre meno rifiuti da rifiuti. Senza dimenticare che quando non possono essere recuperati energeticamente, i rifiuti non riciclabili derivanti dal trattamento dei rifiuti sono destinati a finire in discarica. Una quantità che Ispra, dice Ref, stima in circa 6 milioni di tonnellate.