L’Agcm definisce “discriminatorio per i gestori privati” il nuovo regime di mercato introdotto dal decreto legislativo 116 del 2020 e chiede procedure più semplici per l’autorizzazione di nuovi termovalorizzatori
L’antitrust chiede la modifica del regime di mercato introdotto dalla nuova classificazione dei rifiuti urbani, considerandolo discriminatorio per i gestori privati e d’ostacolo all’economia circolare. Erano in molti ad aspettarsi un pronunciamento in questo senso da parte dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che non è nuova a interventi in materia di rifiuti, e ora ecco tutto nero su bianco nelle proposte consegnate al governo per la legge annuale sulla concorrenza. Nel capitolo dedicato alle misure necessarie alla ‘promozione di un’economia circolare nel settore dei rifiuti’ l’Agcm ravvisa infatti profili di scarsa concorrenzialità in relazione alla disciplina introdotta dal decreto legislativo 116 del 2020, che incassa quindi una nuova, sonora, stroncatura.
Ridefinendo il perimetro dei rifiuti urbani e di quelli speciali, il decreto legislativo, spiega l’antitrust, ha fatto venire meno il meccanismo dell’assimilazione “riaffermando la piena libertà delle attività economiche che producono rifiuti simili di affidarne la raccolta e l’avvio a recupero e/o smaltimento al di fuori della gestione del servizio pubblico” e di ottenere riduzioni della parte variabile della tariffa rapportate alle quantità avviate a recupero. Il problema, spiega l’authority, è che la nuova disciplina “stabilisce la necessità di stipulare con il gestore pubblico o con l’operatore privato prescelto un accordo contrattuale con una dura minima quinquennale“. Una previsione che per l’Agcm sarebbe “discriminatoria per i gestori privati, in quanto, mentre è possibile rientrare nella gestione pubblica in ogni momento e, quindi, anche prima del decorso dei cinque anni, non è consentito il contrario“.
Ecco perché “al fine di non ostacolare la concorrenza tra i diversi operatori (privati e pubblico) del servizio di raccolta e avvio a recupero dei rifiuti estendendo impropriamente la privativa delle gestioni pubbliche – scrive l’Agcm – si ritiene quindi necessaria l’eliminazione della durata minima quinquennale dell’accordo“. Una posizione che incontra il favore delle associazioni delle piccole e medie imprese e dell’artigianato, che da sempre chiedono l’eliminazione di qualunque vincolo temporale alla possibilità di scegliere tra pubblico o mercato, compreso il termine ultimo per la comunicazione al comune o al gestore della volontà di non servirsi più del servizio pubblico che il decreto “sostegni” ha invece recentemente fissato al 31 maggio di ogni anno.
Nelle sue osservazioni l’Agcm torna poi a censurare l’improprio utilizzo della nozione di ‘gestione integrata del servizio’, stigmatizzando la frequente estensione delle attività ricomprese nella privativa per la gestione dei rifiuti urbani ad attività di smaltimento, recupero e riciclo “tipicamente svolte in regime di mercato” anche “mediante una impropria attribuzione di titolarità esclusiva in capo al gestore”. Sul punto, sottolinea l’authority, “appare necessario prevedere che la gestione integrata debba essere affidata e svolta nel rispetto del principio concorrenza, e non possa comportare improprie monopolizzazioni dei mercati concorrenziali”.
Sempre in tema di gestione efficiente e concorrenziale dei rifiuti urbani l’Agcm sottolinea come questa sia ostacolata dalla carenza di impianti di recupero energetico per le frazioni indifferenziate che “non consente, in una fase a valle della raccolta, relativa ad attività da svolgersi in regime di libero mercato, l’esplicarsi di stimoli competitivi idonei a promuovere il raggiungimento dell’efficienza allocativa, non permettendo un’adeguata valorizzazione economica del rifiuti, con attivazione di ulteriori filiere (es. nel caso del TMV, produzione di energia elettrica), e vale a definire un eccessivo potere di mercato in capo ai pochi impianti esistenti, con un possibile incremento dei costi di complessiva gestione dei rifiuti urbani e maggiore spesa per i cittadini”. Ecco perchè l’Autorità, consapevole “che i principali ostacoli alla realizzazione degli impianti in questione non derivano da considerazioni di maggiore o minore redditività dell’attività, quanto piuttosto dalla complessità dell’iter autorizzativo cui sono sottoposti e dalla ostilità spesso mostrata dalla popolazione e dagli stessi enti locali nei confronti di tali opere (c.d. sindrome “nimby”)” suggerisce “una ulteriore semplificazione delle procedure autorizzative previste per la realizzazione di tali impianti” ad esempio “mediante l’attivazione di poteri sostitutivi in caso di inerzia delle amministrazioni pubbliche interessate, un maggiore ricorso a forme di autocertificazione, nonché tempistiche certe per la conclusione dei procedimenti per la relativa autorizzazione” e la “definizione di meccanismi di incentivazione e/o compensazione non tanto a vantaggio degli investitori, quanto delle popolazioni e degli enti locali interessati”.