Con il mese di maggio è scattata la sperimentazione del CAC diversificato del Conai: una vera e propria svolta che punta a far lievitare i costi per i produttori di imballaggi meno sostenibili e farli invece crollare per quelli più facilmente recuperabili, sia in termini di raccolta e selezione che di puro riciclo. La sperimentazione del Conai (che punta a diventare strutturale a partire dal prossimo anno) parte proprio dagli imballaggi in plastica, dove però si è trovata ad dover tener conto del mondo delle bioplastiche: sempre più pervasivo da quando gli shopper biodegradabili sono diventati obbligatori.
«Il 30 luglio 2017 il Consorzio nazionale dei produttori di imballaggi, CONAI, potrebbe inserire i bioshopper nella terza fascia, ovvero tra i materiali non riciclabili, penalizzando di fatto con il pagamento del contributo massimo produttori che rientrano a tutti gli effetti nell’economia circolare. Sto dunque presentando un’interrogazione parlamentare per chiedere al governo di recepire al più presto la direttiva europea sulla definizione dei requisiti dei bioshopper». A comunicarlo è stata Laura Puppato, capogruppo del Pd nella Commissione Ecomafie, rilanciando pochi giorni fa l’allarme sollevato da Assobioplastiche, l’associazione dei produttori di bioplastica, in sede di audizione presso la stessa Commissione la scorsa settimana. «Si deve agire sul Conai – conclude Puppato – perché definisca un modello di contribuzione che tenga conto della compostabilità degli imballaggi».
Lo schema di contribuzione aggiornato del Conai, infatti, ha messo in seconda fascia soltanto gli shopper biodegradabili come definiti dalla direttiva Ue, ignorando tutti gli altri imballaggi e simili di sempre più larga diffusione: basti pensare alle capsule del caffé o alle stoviglie compostabili. Tutti prodotti che non rientrano – denuncia l’associazione dei produttori di bioplastica – nel circuito Conai/Corepla, bensì in quello dell’umido, che dunque non richiedono selezione e sono direttamente avviabili a compostaggio con tutta la frazione organica dei rifiuti urbani.
In altre parole, fatta eccezione proprio per i bioshopper, salvo interventi nell’immediato futuro gli imballaggi compostabili finiranno in terza fascia tra quelli non selezionabili né riciclabili, nonostante siano tra quei materiali più che mai figli dell’innovazione per la riciclabilità. Una differenziazione che appare insensata oltre che penalizzante dato che il fine vita sarà lo stesso.
La diatriba va ad inscriversi in un contesto complesso. La diffusione di shopper illegali (oggetto primario delle denunce presentate da Assobioplastiche e rilanciate dalla Puppato) fa sì che l’utilizzo di buste non a norma infici la recuperabilità del compost con un rapporto 100 a 150 (per ogni quintale di frazione estranea se ne scartano almeno uno e mezzo potenzialmente compostabili) risultando in una dispersione di forsu stimata entro le 100mila tonnellate l’anno. Intanto i produttori continuano a pagare il contributo ambientale al Corepla, mentre a smaltirle sono i compostatori del CIC.
Ma il discorso è, almeno parzialmente, anche rovesciabile: gli utenti – non abituati a gettare la plastica nell’umido – fanno finire nel circuito Corepla una quota di prodotti biodegradabili che potrebbero complicare la gestione della filiera. Sembrerebbe stimabile in un rapporto 90 a 10 tra plastica e bioplastica il limite entro cui gli impianti possono gestire senza problemi questo fenomeno. Per evitare che si vada oltre questa proporzione (e per andare verso una sempre migliore gestione dei rifiuti) sarebbe auspicabile una comunicazione sempre più chiara e doveva essere questa l’iniziativa figlia dell’accordo stretto proprio tra Cic e Corepla poco meno di due anni fa, nel giugno 2015, e del valore di 3 milioni di euro. Ad oggi però risulta soltanto una campagna informativa che non sembra aver mai visto seriamente la luce e sembrerebbe essere naufragata.