La riattivazione del sistema degli ‘impianti minimi’, dopo le sentenze della giustizia amministrativa, riaccende il dibattito sul mercato dei rifiuti urbani. Sul rapporto tra concorrenza e prossimità i portatori d’interesse sono su fronti diversi, ma sono anche tutti d’accordo nel chiedere al legislatore maggiore chiarezza sul ‘market design’. Soprattutto per i rifiuti organici, come è emerso oggi nel corso di un talk con Assoambiente, CIC e Utilitalia
Tornano gli ‘impianti minimi’, ma l’interrogativo resta: qual è il disegno di mercato per i rifiuti urbani? Anche se dopo la bocciatura del Consiglio di Stato il sistema di ARERA – riattivato nei giorni scorsi dall’authority per il biennio 2024-2025 – è stato subordinato al Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti, che dovrà fornire alle Regioni le regole per stabilire se sottrarre o meno al gioco della libera concorrenza gli impianti non integrati, il rapporto tra mercato e regolazione resta ancora tutto da costruire. “Anche se questa delibera consente di restituire un po’ di ordine alla materia – ha spiegato il presidente di Utilitalia Filippo Brandolini in occasione di un talk su Ricicla.tv – l’ordine andrebbe ricostruito anche nel framework generale, andando a calare nella normativa nazionale in materia di rifiuti le regole del market design per il settore. Perché – ha aggiunto – resta da chiarire un aspetto fondamentale: come conciliare il principio della concorrenza e del libero mercato con il principio della prossimità. Sotto questo profilo, le carenze di trattamento in alcune aree del paese oggi ci dicono che il mercato, da solo, non basta”. Motivo per cui anche nella ‘versione 2.0’ del sistema di gate fee, gli impianti non integrati – quindi discariche, inceneritori e impianti per l’organico – potranno essere qualificati come ‘minimi’ dalle Regioni. Ma a guidare la scelta degli enti territoriali, questa volta, saranno i criteri e i deficit di trattamento indicati dal Programma Nazionale di Gestione dei Rifiuti.
Per il resto, tutto come prima: la qualifica di ‘minimo’ si tradurrà, per i gestori degli impianti, nella sospensione del libero mercato a vantaggio di una regolazione di flussi e tariffe su base territoriale. Cosa che, nel caso dei rifiuti organici, comporterà la ‘bacinizzazione’ delle quantità da trattare, anche se per la normativa nazionale queste, in quanto dirette a recupero, dovrebbero poter viaggiare sull’intero territorio nazionale in cerca della migliore offerta. Una lettura che, nel confronto con la libera concorrenza, fa prevalere il principio di prossimità, in virtù del quale gli spostamenti vanno ridotti per evitare ripercussioni sotto il profilo economico (costo dei viaggi) e ambientale (emissioni e putrescibilità dell’organico). Rispetto a qualche anno fa, quando gli squilibri territoriali erano molto più marcati, la situazione è decisamente diversa, dicono tuttavia gli operatori. “Il Programma Nazionale – ha spiegato la presidente del Consorzio Italiano Compostatori Lella Miccolis – dice che i fabbisogni di recupero possono essere colmati anche a livello di macroarea. Se ragioniamo in questi termini, allora per quanto riguarda la frazione organica dei rifiuti urbani siamo già in equilibrio”. E anzi, avvertono i compostatori, complice il boom di nuovi impianti, spinti anche da PNRR e incentivi al biometano, in alcune aree del paese la capacità di trattamento autorizzata eccede già la domanda. “E forse – ha osservato Miccolis – il mercato ‘tout court’ non ha dato le risposte che doveva dare, come dice Brandolini, proprio perché grazie (o a causa, a seconda dei punti di vista) della ‘overcapacity’ in alcune zone, le tariffe di conferimento sono molto calate. Al punto da non rendere più sostenibili alcuni impianti”.
Tuttavia, ribatte il presidente di Assoambiente Chicco Testa, sarebbe un errore pensare di poter garantire a ogni attore di mercato la giusta remunerazione, “perché così ci troveremmo di fatto in una economia pianificata. Il fatto che qualcuno decida quanti impianti ci vogliono e con quali capacità è un bellissimo principio – ha chiarito – ma le regioni che contano i peggiori deficit, ovvero Lazio e Campania, sono proprio quelle che hanno cercato di programmare tutto e che a oggi non hanno ottenuto niente. Se avessero dato un po’ di autorizzazioni ai privati che gli impianti li volevano fare – ha detto – avremmo risolto il problema da tempo”. Anche gli ‘impianti minimi’, ha spiegato, “sono figli di una concezione superata, quella per la quale i Comuni, le Regioni o gli Ato dovevano programmare gli impianti. Posso assicurare che, a fronte di flussi certi, di imprenditori pronti a investire nella realizzazione di nuove strutture non ne mancano. Il deficit non è dovuto né alla mancanza di operatori, né di investimenti. Gli impianti mancano dove mancano le autorizzazioni”.
Le posizioni, insomma, sono tante e variegate. Comuni e gestori del servizio pubblico, da un lato, hanno necessità che nelle aree meno servite da impianti i costi del servizio non esplodano per i trasporti o a causa di eventuali manovre speculative. Le imprese private, dall’altro, difendono i principi della libera concorrenza e del mercato che, nel caso dei rifiuti organici, stanno già dimostrando di potersi tradurre in benefici economici, oltre che ambientali. Allo stesso tempo, tuttavia, proprio nel caso dei rifiuti organici i gestori di impianti già esistenti invitano a valutare attentamente quali e quante nuove strutture costruire per evitare che l’eccesso di offerta rispetto alla domanda si traduca in uno spietato gioco al ribasso tra operatori, con ripercussioni sul ritorno degli investimenti e, da ultimo, anche sui livelli occupazionali. Esigenze e interessi diversi, e tutti a loro modo legittimi, che gli operatori chiedono al legislatore di ricomporre. “Quello che chiediamo al legislatore nazionale, e al suo braccio operativo che è il Ministero dell’Ambiente – ha detto Lella Miccolis – è di attualizzare le informazioni contenute nel Programma, che fanno riferimento a dati ormai superati”. Dati in virtù dei quali si rischia di considerare come in deficit aree del paese per le quali, invece, negli ultimi anni sono state autorizzate capacità di trattamento più che sufficienti. “Anche perché – ha aggiunto – sono state fatte stime troppo ottimistiche sull’aumento della raccolta differenziata, che invece è in una situazione stagnante mentre l’unica cosa che aumenta, purtroppo, è il tasso di frazioni estranee”.
Accanto alla necessità di aggiornare le stime del Programma Nazionale, sottolineata anche da una serie di iniziative parlamentari come la risoluzione proposta dalla senatrice Silvia Fregolent, resta tuttavia quella di rivedere la normativa di riferimento per il settore, contenuta nel Testo Unico Ambientale, per integrarla con indicazioni più chiare, e in linea con i tempi, sulla struttura di mercato per i rifiuti urbani. “Il decreto legislativo 152 del 2006 è il cuore del problema – ha sottolineato Testa – è arrivato il momento di chiarire se dobbiamo andare verso il libero mercato o verso un regime pianificatorio”. Un appello che il presidente di Assoambiente ha rivolto direttamente ai membri del tavolo di esperti convocato dal Ministero dell’Ambiente per la revisione del TUA. “Il gruppo di lavoro – ha detto – dovrebbe mettere all’ordine del giorno una scrittura chiara e definitiva di market design, decidendo i pilastri generali di questo mercato e non lasciando ai giudici il compito di chiarirli”. “Non dobbiamo fare l’errore di polarizzare il dibattito tra pianificazione e regolazione, da un lato, e libero mercato, dall’altro – ha avvertito Brandolini – ma trovare la corretta declinazione del rapporto tra concorrenza e prossimità resta indispensabile. Siamo sicuri che basti un mercato ‘tout court’ e non ci sia necessità di integrare qualche altra regola? Anche perché, come si dice, il mercato deve basarsi su un ‘level playing field’, mentre oggi questa condizione non è garantita dal modo eterogeneo con il quale le Regioni hanno pianificato la loro impiantistica. Bisogna costruire una transizione”.