Aumenta la capacità media di spesa, aumentano consumi e consumatori, aumentano i rifiuti. Un paradigma difficile da sovvertire, tanto più se il consumo in questione è quello di prodotti tecnologici, sempre più numerosi e insostituibili nel paniere del cittadino globale. La quantità complessiva di device elettrici ed elettronici immessi sul mercato mondiale è in aumento costante ed è passata dalle 51,3 milioni di tonnellate del 2007 alle 56,6 milioni del 2012. Di queste, ben 26,7 sono finite sul mercato asiatico, di gran lunga la principale piazza al mondo per l’elettronica di consumo. Che adesso, però, rischia di essere sommersa da uno tsunami di rifiuti tecnologici. Complessivamente, nel 2014 l’Asia ha infatti generato la quota maggiore dei rifiuti elettrici ed elettronici prodotti a livello globale: 16 milioni di tonnellate. Di queste, una buona parte proviene dai Paesi dell’Est e del Sud-Est asiatico, dove crescita economica e boom dei consumi di device elettrici ed elettronici stanno andando di pari passo con un altrettanto impressionante aumento delle quantità di pattume tecnologico generate. Una crescita vertiginosa, superiore nel ritmo anche all’aumento della popolazione e registrata in uno studio realizzato dall’Università delle Nazioni Unite su 12 Paesi dell’Asia orientale, tra cui Cina, Giappone, Hong Kong, Singapore, Taiwan e Cambogia.
Tra il 2010 ed il 2015, si legge nel dossier, la produzione di rifiuti tecnologici nei Paesi esaminati è aumentata del 63% per un totale di 12,3 milioni di tonnellate, pari ai tre quarti dei rifiuti generati in Asia nello stesso anno. Una montagna di pattume, equivalente a 2,4 volte il peso della grande piramide di Cheope, a Giza. La Cina, da sola, ha più che raddoppiato la sua produzione di pattume tecnologico, con un aumento del 107% nel periodo dal 2010 al 2015, generando nell’ultimo anno circa 6,7 milioni di tonnellate di rifiuti, più della metà dei rifiuti prodotti nell’area presa in esame dallo studio. E sebbene in Asia la produzione pro-capite si attesti “solo” a 3,7 kg – in Europa e Stati Uniti ogni cittadino ne produce quasi quattro volte di più, circa 15,6 kg – nei 12 Paesi esaminati dall’UNU la media pro-capite sale invece a 10 kg. In testa Hong Kong (21.7 kg), Singapore (19.95 kg) e Taiwan (19.13 kg). All’altra estremità della classifica Cambogia (1.10 kg), Vietnam (1.34 kg) e Filippine (1.35 kg).
Dietro l’impennata dei flussi di pattume tecnologico, secondo lo studio, vanno individuate quattro cause principali: aumento dei beni disponibili sul mercato (soprattutto gadget portatili – dagli smartphone ai tablet, fino agli smart watch), aumento della popolazione e della capacità di spesa in paesi con una classe media in forte espansione, riduzione della vita utile delle apparecchiature dettata dai fenomeni di obsolescenza e dalle mode, importazione su larga scala di prodotti tecnologici sia nuovi che usati. Questi ultimi non di rado provenienti da Paesi occidentali, che utilizzano il canale dell’usato per liberarsi – illegalmente e a costo ridotto – dei propri rifiuti tecnologici. Ad allarmare gli analisti, però, sono soprattutto i contraccolpi ambientali e sanitari che una simile ondata di rifiuti sta inevitabilmente generando. «Per molti paesi già scarsamente dotati di adeguati sistemi per una gestione sostenibile dei rifiuti elettrici ed elettronici, l’aumento dei volumi generati è causa di forte preoccupazione – spiega Ruediger Kuehr , ricercatore alla UNU e principale autore dello studio – appesantire ulteriormente i sistemi di raccolta e trattamento esistenti si traduce inevitabilmente in uno spostamento dei flussi verso forme di riciclo e smaltimento non compatibili con l’ambiente».
E se Giappone, Corea e Taiwan dispongono già dagli anni ’90 di sistemi adeguati di raccolta e gestione dei rifiuti elettrici ed elettronici, paesi come Cina, Filippine, Malesia e Vietnam, secondo lo studio sono invece ancora in una “fase di transizione” ed affiancano ai nascenti canali ufficiali pratiche ancora molto diffuse di “backyard recycling”, ovvero di gestione informale del pattume tecnologico, generalmente in spazi aperti e in assenza di qualsiasi presidio ambientale o sanitario: dai roghi appiccati per separare il rame dalle guaine dei cavi, fino ai cosiddetti “bagni di acido” utilizzati per estrarre metalli preziosi dalle schede a circuiti stampati. Sistemi dall’impatto devastante sull’ambiente e sulla salute dei lavoratori. «In assenza di misure protettive come guanti, occhiali e maschere, l’esposizione alle sostanze chimiche utilizzate nei processi danneggia gravemente la salute dei riciclatori informali» racconta Shunichi Honda, co autore dello studio. Ma le ripercussioni sulla salute non sono limitate ai soli riciclatori. «Diversi studi – prosegue Honda – confermano la correlazione tra le esposizioni a pratiche non corrette di trattamento dei rifiuti elettronici ed alterazioni nelle funzioni della tiroide, riduzione della capacità polmonare, malformazioni alla nascita, disturbi cognitivi nei bambini, citotossicità e genotossicità». «L’esposizione indiretta a queste sostanze è causa di numerose patologie per le famiglie dei riciclatori, che spesso vivono e lavorano nello stesso posto, così come per le comunità residenti nell’area circostante il sito di riciclo informale», aggiunge Deepali Sinha Khetriwal, Associate Programme Officer della UNU.